venerdì 3 settembre 2010

un sonetto

Music to hear, why hear'st thou music sadly?

Sweets with sweets war not, joy delights in joy.

Why lovest thou that which thou receivest not gladly,

Or else receivest with pleasure thine annoy?

If the true concord of well-tuned sounds,

By unions married, do offend thine ear,

They do but sweetly chide thee, who confounds

In singleness the parts that thou shouldst bear.

Mark how one string, sweet husband to another,

Strikes each in each by mutual ordering,

Resembling sire and child and happy mother

Who all in one, one pleasing note do sing:

Whose speechless song, being many, seeming one,

Sings this to thee: 'thou single wilt prove none.'



Tu che sei sol musica, perché l'ascolti con disdegno?

Dolcezza ama dolcezza e gioia di gioie si diletta:

perché vuoi ascoltare qualcosa che ti annoia

o forse hai piacere nell'essere annoiato?

Se l'armonioso suono di note ben accordate

in un perfetto assieme, offendono il tuo orecchio,

esse t'accusan solo gentilmente perché confondi

in singola armonia quanto scindere dovresti.

Guarda come ogni corda dolcemente unita all'altra

vibra ognuna su ognuna in ordine reciproco,

sembrando padre e figlio e felice madre

che tutti insieme cantano la stessa dolce nota:

queste mute voci, riunite in un sol coro,

all'unisono ti dicono: "Solo, non sarai nessuno".


Shakespeare - Sonetto VIII


un incontro tra musica e pensiero

Un incontro tra musica e pensiero

di Francesco Angelo Sposato

Musica e pensiero nella Germania di fine ’700 subiscono una reciproca agnizione: l’una si riconosce nell’altra. Il pensiero e il modo in cui legge il mondo manifestano una procedura in tutto simile a quella della forma sonata ed il modo in cui apprezziamo la musica appare come un effetto del modo in cui pensiamo il mondo. Per descrivere quest’agnizione dobbiamo fare due nomi: Hegel e Beethoven.

Il primo propone un modello di determinazione del concetto che si fonda su un processo di contrapposizioni teso al raggiungimento di una loro sintesi; allo stesso modo, Beethoven, nello sviluppo che riesce a dare alla forma sonata, dimostra come non esista di per sé il suono perfetto, ma come questo sia invece il risultato di una contrapposizione di suoni e della estenuante e titanica ricerca di una loro sintesi.

Prima di parlare di questa corrispondenza, è però necessario analizzare più a fondo la forma sonata e i suoi elementi costitutivi.

* * *

Il termine “forma sonata” si riferisce ad una particolare organizzazione del materiale musicale all’interno del singolo movimento (generalmente, ma non esclusivamente, il primo) di una sonata, di una sinfonia o di un qualsiasi pezzo da camera, composti tra il 1700 e 1800, cioè in quel periodo in cui autori quali Mozart, Haydn e Beethoven permisero il fiorire e l’affermarsi della cosiddetta “sonata classica”.

Al riguardo Herbert Weinstock sostiene: “Gli esperti finiscono per litigare in fretta in merito all’uso della sua terminologia: non ci sono due storici o musicisti perfettamente d’accordo su ciò che è – o era – una sonata o su come diventò tale oppure smise di esserlo”. (H. Weinstock, Cos’è la musica, Milano, 1969, p. 167). Ma senza troppi sofismi proveremo a dare una definizione più semplice e comprensibile della forma sonata, prima individuandone la sua origine storica e poi descrivendo nel dettaglio le sue caratteristiche formali.

Fino alla fine del XVII secolo le sonate erano costituite da tre movimenti o “tempi” che dovevano avere carattere contrastante. Il primo e il terzo erano generalmente tempi veloci, mentre il secondo, intermedio, era solitamente un Adagio, o comunque un tempo lento. A poco a poco i primi movimenti di sonata cominciarono a sviluppare uno schema indipendente e personale. In particolare, fu Domenico Scarlatti nella prima metà del ’700 a comporre le sue sonate in un unico grande movimento. Difficilissimo da isolare allo stato puro, questo nuovo schema è indicato in modo piuttosto confuso, con due definizioni non appropriate: “forma-sonata” e “forma di primo movimento”. La “forma-sonata” è ambigua, perché ciò che s’intende indicare non è la forma di “una” sonata bensì quella del movimento di una sonata; la “forma di primo movimento” è egualmente inesatta perché lo schema viene usato spessissimo per altri movimenti. Noi per comodità ci atterremo alla definizione più usata, cioè quella di “forma sonata”.

La struttura è costituita da tre sezioni: esposizione, sviluppo e ripresa. Il materiale melodico principale è presentato nella prima, esaminato e commentato nella seconda, e ripetuto in forma variata nella terza. Più precisamente: nell’esposizione vengono suonati due temi, il primo presentato alla tonica (il primo grado della tonalità di impianto) e il secondo alla dominante (il quinto). Segue lo sviluppo, momento culminante, in cui si dispiega in modo completo il conflitto drammatico tra i temi suonati nell’esposizione. Infine, la ripresa ha il compito di risolvere le tensioni create fino a questo momento, riproponendo i temi iniziali con alcune varianti tecniche: il secondo tema è suonato alla tonica, non più alla dominante.

Se la maggior parte dei compositori considerò tale schema come una manifestazione dello spirito oggettivo a cui adeguare la propria soggettività (una sorta di abito delle cerimonie per essere invitato al ballo di corte), Beethoven trovò in esso l’oggettivazione del suo stesso modo di pensare, il modo di procedere del suo comporre. Nelle sue opere, infatti, la forma sonata si manifesta con la forza di un concetto che si auto-impone. E come per Hegel la dialettica non è uno strumento escogitato per controllare meglio la realtà, ma il movimento stesso della realtà, nel quale noi stessi siamo presi, così per Beethoven la forma sonata non è più una semplice convenzione in cui inscrivere la musica, ma una struttura che liberamente si sprigiona da e con essa. Entrambe le opere del filosofo e del musicista intendono proporre un sistema atto a prendere la forma, per usare le parole di Kant, di “un tutto organizzato e non ammucchiato che cresce dall’interno e non dall’esterno”.

Fu Adorno a notare per primo la somiglianza tra il procedimento compositivo beethoveniano e la struttura riflessiva della dialettica hegeliana. Nell'opera di Beethoven si è di fronte allo stesso problema della filosofia hegeliana: come è possibile la creazione di un intero senza che si faccia violenza ai singoli elementi che lo costituiscono?

* * *

“Si deve partire da un elemento determinato della coscienza, ma al tempo stesso si deve mostrare in esso la necessità in virtù della quale si converte in un altro, fino a che col successivo ripetersi di questo passaggio, l’elemento inizialmente posto sia allargato e integrato fino alla totalità dell’essere. Il procedimento generale della fenomenologia dello spirito è in tal modo determinato” (Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna, Torino, 1978, Volume 3, Tomo II pp. 390-91).

Ciò che qui si dice riguardo alla Fenomenologia dello spirito descrive esattamente quanto accade nelle composizioni beethoveniane. Per comprendere l’analogia dobbiamo semplicemente pensare all’elemento determinato della coscienza, il sensibile, come a ciò che in musica viene definito tema, cioè l’idea musicale assunta come elemento caratterizzante di un brano. Bisogna allora spiegare in che modo il tema possa essere simile, se non identico, all’idea hegeliana di ciò che è sensibile, ovvero meramente immediato e astratto. Dice Adorno: “Il singolo momento in Beethoven tende alla relativa indeterminatezza dei rapporti formali della tonalità, all’amorfo” (Th. W. Adorno, Teoria estetica, Torino, 1978, p. 263), dove per “rapporti formali della tonalità” s’intendono gli accordi tonali più semplici, costituiti da 3 note (triadi) corrispondenti a 2 intervalli di terza sovrapposti (ad es. do-mi-sol). Ora, quando un tema è configurato sulle sole note delle triadi fondamentali si espone ad un rischio, che è precisamente quello di rimanere un banale arpeggio. Ad esempio, nella sonata op. 57, la cosiddetta Appassionata, in cui l’esposizione tematica viene affidata ad un disegno di triadi arpeggiate sull’accordo fondamentale di fa minore, il materiale musicale è talmente plasmato nelle leggi armoniche che l’ascoltatore quasi non riesce a distinguere il tema dalla più semplice e disarmante grammatica musicale. Quasi non si riesce a capire se le esigenze retoriche della musica vengano qui trascese o meno dall’affermazione personale del compositore. Glenn Gould si meravigliò della prorompente spontaneità di questo tema, tale per cui “viene da chiedersi perché ci sia voluto un Beethoven per pensarlo” (Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente, Milano 1988, p. 102. Uno dei segreti di questa musica è proprio il fatto di avere costantemente a che fare con le unità minime della musica stessa, e contemporaneamente utilizzare i rapporti tonali più semplici, immediati.

Ma la forza di Beethoven non si ferma al particolare. Anzi, va ricercata soprattutto nella totalità delle connessioni che egli sviluppa a partire da questo. Se l’opera si fermasse all’esposizione dei due temi, entrambi determinati e nello stesso tempo immediati, questi rimarrebbero privi di significato.

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“Per Hegel ogni momento singolo, dimostrandosi incapace di abbracciare ed esprimere la totalità del reale, esige il suo opposto, e anche questo deve poi essere superato in una nuova unità correlativa dell’opposizione”(Cassirer, op. cit., pp. 456-57).

Ora che abbiamo dato il momento intellettuale, veniamo al momento propriamente dialettico, quello negativo, che nella forma sonata si dà come sviluppo.

Se la razionalità è, per sua natura, un esercizio di mediazione, allora non può che svilupparsi in forma concettuale e dis-corsiva (dal latino discorrere, propriamente correre qua e là)[1]. Ebbene, la mia tesi vuole mostrare come ciò che in Hegel rappresenta l’apice di quest’esercizio, ovvero quel momento in cui l’elemento determinato si trasforma nel suo opposto, corrisponda esattamente a ciò che nelle composizioni di Beethoven accade nel modo più drammatico e spontaneo, in pratica ciò che conferisce al maestro la sua grande fama e che legittima il suo valore. Ad alti regimi filosofia e arte si specchiano l’una nell’altro, nel senso che procedono allo stesso identico modo.

Data l’astrattezza e la mera immediatezza dei primi assunti, l’opera si riversa necessariamente in questa fase. Qui i due temi si scompongono e si contrappongono secondo diverse tecniche. In realtà si tratta di una lotta che vede come combattenti il compositore pensante e i due temi appena esposti, l’uno dubitando degli altri per saggiarne la resistenza, sottoponendoli a una specie di “prova di falsificazione”. In questa lotta, dice Adorno, “il soggetto esce da sé, penetra nel materiale al fine di spezzarne l’identità; il tema viene così proiettato verso gli ulteriori elementi; assieme ad essi risulta ‘inverato’ in una sintesi superiore”.

Da qui scaturisce l’ulteriore analogia dell’immanenza della forma, valida sia per il sistema hegeliano che per quello beethoveniano. Nonostante vengano portate alla luce tutte le possibili connessioni, vengono percorse tutte le possibili direzioni, una dopo l’altra, e i temi vengano di per sè stravolti dalle modulazioni e dalle variazioni, le identità rimangono al sicuro nelle cellule ritmiche dell'esposizione. Così si assiste all'evolversi e al crescere di un sistema, ovvero di un organismo.

In queste successioni si palesa un’altra delle caratteristiche fondamentali dell’arte beethoveniana così come del pensiero hegeliano: la temporalità. Cito ancora Adorno: “Il tempo è articolabile solo attraverso le distinzioni del noto e non ancora noto, di ciò che è stato e del nuovo; il procedere ha a condizione una coscienza che scorre all’indietro. Si deve conoscere per intero una frase, certificarsi in ogni istante retrospettivamente di quanto è preceduto. I singoli passaggi sono da ritenersi conseguenza di questo; occorre realizzare il senso della memorazione declinante, sentire ciò che riappare non come corrispondenza architettonica, bensì come un divenuto che si impone per forza propria” (Th. W. Adorno, Drei Studien zu Hegel).

Ecco perché per apprezzare a pieno un’opera di Beethoven la si deve ascoltare molte volte, perché si deve essere in grado di tenere a mente, mentre la musica scorre, il percorso da essa compiuto, alla stessa maniera di quando, per non perdersi, si devono ricordare le direzioni imboccate ad ogni bivio incontrato. L'opera viene quindi a presentarsi come storia di se stessa, dove il soggetto dato è costretto a raggiungersi e ri-comprendersi in continuazione, ad infinitum, e deve continuamente rimanere in equilibrio tra la tesi e l'antitesi.

In ogni caso però anche lo sviluppo deve avere una fine, senza la quale quest'equilibrio sarebbe compromesso. La mano sapiente del compositore, così come l’acuto pensiero del filosofo, ci trae fuori dal momento negativo incanalandoci sull’unica strada percorribile, quella che porta alla ripresa, alla ragione.

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“Nulla vi è, nulla nel cielo o nella natura o nello spirito o ovunque sia, che non contenga tanto l'immediatezza quanto la mediazione”(Hegel, Scienze della logica).

La ripresa chiude il percorso. Riproponendola, riveste l’esposizione dell’armatura concettuale acquisita nello sviluppo: fa del negativo la sua forza. Ponendosi come riconciliazione tra immediato e mediato sancisce il legame inscindibile tra particolare e tutto, legati a doppio filo: il particolare ha senso solo perché inserito in una totalità, senza la quale sarebbe nullità, e a sua volta la totalità è formata dalla reciproca interazione dei diversi particolari. Così si pone l’Assoluto nella forma sonata, come identità dell’identità e della non-identità, dell’uno e del molteplice. L’ascoltatore sente rinascere dallo sviluppo il primo e il secondo tema, per di più uniti nello stesso spettro tonale, ma ora ne conosce le contraddizioni dialettiche, le opposizioni, le potenzialità. Il nuovo si rivela già essere contenuto nel vecchio, che si ri-impone per forza propria. Ora la riproposizione di quei temi che prima sembravano in-significanti getta luce su tutto il passato dell’opera, che solo in tal modo acquisisce senso compiuto.

L’assoluto rimane, sì, come prima il supremo, l’unico oggetto della filosofia, ma non ne forma più il cominciamento immediato, bensì il termine, non più il presupposto, ma il risultato” (Ernst Cassirer, Storia della filosofia moderna, Torino, 1978, Volume 3, tomo II, p. 385).

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Questa fatale corrispondenza tra musica e pensiero, apparentemente così forte (due diamanti che rifrangono la luce del loro tempo con assoluta perfezione), non ebbe migliore destino di quel che solitamente tocca in sorte alle creazioni umane. Il pensiero si incamminò subito lungo i viali della distruzione della ragione e la musica presto cominciò il suo gioco dell’elastico tra un tradizionalismo fatiscente e uno sperimentalismo in terre sempre più deserte. Ma questa è un’altra storia.

Roma, 7 luglio 2009



[1] Devo questa idea al saggio di Paolo Guglielmoni La scrittura musicale come modello per una dialettica dell’espressione.